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Accertamento induttivo, dichiarazioni di terzi costituiscono elementi indiziari

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Le dichiarazioni di un terzo costituiscono elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice. Ciò posto, l’elevato numero e la rilevante rappresentatività delle stesse in relazione alle operazioni poste in essere dal contribuente, costituisce valido elemento per contrastare la ricostruzione induttiva dei ricavi ipotizzati dall’Ufficio.

E’ quanto stabilito dalla Sezione Tributaria della Cassazione con l’ordinanza 6616 depositata il 16 marzo 2018.
Nel caso di specie, l’Ufficio, a seguito di verifica, ha notificato un avviso di accertamento con il quale rideterminava induttivamente il reddito in capo ad un contribuente, titolare di un’impresa di servizi funebri. In particolare, veniva ipotizzato un prezzo medio ponderato a funerale che comportava, secondo i relativi conteggi, la sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati.

Il contribuente, dopo l’esito negativo del tentativo di adesione, presentava ricorso che però veniva respinto dalla CTP.

L’atto impositivo veniva però annullato integralmente a seguito del successivo accoglimento dell’appello, nel presupposto che erano state prodotte ben quarantadue dichiarazioni dei clienti a conferma dei corrispettivi (inferiori) sostenuti per le esequie, rispetto a quelli indicati dall’Agenzia delle Entrate.

L’Ufficio impugnava la decisione della CTR, lamentando la violazione del divieto di prova testimoniale nel giudizio tributario, atteso che le dichiarazioni dei clienti potevano assumere solamente valenza indiziaria, non essendo state, nella specie, corroborate da ulteriori riscontri.

Con l’ordinanza in esame, i giudici della Cassazione hanno ritenuto infondato il ricorso dell’Agenzia, condannata anche alle spese di lite.

 

Secondo il Supremo Consesso, il divieto di prova testimoniale previsto nel processo tributario dall’art. 7 del D.Lgs 31 dicembre 1992, n. 546, ossia la deposizione dei terzi informati sui fatti, deve essere limitato all’udienza e non anche alle fasi precedenti.

Nella prassi, da anni l’Amministrazione Finanziaria, nel corso dei controlli, richiede informazioni e riscontri a soggetti che hanno avuto rapporti con il contribuente sottoposto a verifica; tali dichiarazioni vengono utilizzate per avvalorare le contestazioni nei suoi confronti.

Predette dichiarazioni sono pienamente legittime in quanto si tratta d’informazioni acquisite prima del processo e non di testimonianze rese in udienza e, pertanto, vietate dalla norma in esame.

I casi più frequenti si  registrano nelle richieste rivolte ai clienti di imprese immobiliari che hanno acquistato immobili per avere conferma della somma corrisposta per l’acquisto, alle banche per rintracciare documenti a sostegno del valore degli immobili, agli acquirenti o venditori di beni i quali riferiscono di non conoscere la controparte ai fini della veridicità dell’operazione e, quindi, della falsità della fattura, ai dipendenti dell’azienda per riscontrare la regolarità della propria assunzione e la retribuzione effettivamente corrisposta, alle informazioni reperite dai clienti di alberghi, ristoranti ecc.

Predette acquisizioni vengono effettuate in completa autonomia da parte dei verificatori dell’Agenzia delle Entrate e  della Guardia di Finanza, senza la presenza del contribuente che ne viene a conoscenza al momento della redazione del processo verbale di contestazione finale. In tale occasione, i verificatori, per dimostrare la fondatezza del rilievo, conferiscono rilevanza probatoria a  suddette dichiarazioni, dalle quali emergono episodi occasionali.

La giurisprudenza di legittimità, pertanto, sottolinea che il principio del divieto di prova per testi si riferisce alle dichiarazioni da assumere con le garanzie del contraddittorio e ciò non comporta l’impossibilità di utilizzare le dichiarazioni rilasciate dai terzi: le stesse, in quanto assunte in sede extraprocessuale, possono concorrere a formare, insieme ad altri elementi, il convincimento del giudice ai fini della decisione del giudizio.

La Corte di Cassazione continua, precisando che occorre, però, effettuare alcuni distinguo in base alla natura confessoria o meno delle dichiarazioni.

L’art. 2730 c.c. definisce la confessione come una dichiarazione che una parte fa della verità dei fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte; ciò posto, una dichiarazione, affinchè abbia natura confessoria, deve far emergere una diretta responsabilità del dichiarante stesso, tale da  provocare conseguenze negative a sé sfavorevoli.

La Suprema Corte evidenzia che la “confessione”, se ritenuta attendibile, può essere da sola idonea a motivare l’avviso di accertamento, purchè avente i requisiti di gravità, precisione e concordanza; invece, una dichiarazione semplice, ossia priva di natura confessoria, può rappresentare solo un mero indizio, che deve ad ogni modo essere corroborato da ulteriori elementi per fondare il convincimento del giudice.

Nel caso di specie, a differenza di quanto asserito dall’Ufficio, la CTR non aveva considerato solo il numero delle dichiarazioni prodotte, ma anche la loro rappresentatività, che riguardava circa un terzo di tutte le prestazioni rese dal contribuente nel corso dell’anno, senza contare che la stessa Agenzia, di fatto, non le aveva mai contestate nel loro contenuto.

La decisione di appello appariva, pertanto, conforme al  dato normativo e, per tale motivo,  risultava errata la quantificazione induttiva dei maggiori ricavi imputati al contribuente.

Fonte: Altalex

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