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Dirigenti e licenziamento: giustificatezza del recesso non coincide con giustificato motivo

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Poiché il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui alla legge n. 604 del 1966, la nozione di “giustificatezza” posta dalla contrattazione collettiva al fine della legittimità del licenziamento non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall’art. 3 della stessa legge. Ne consegue che, ai fini dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la suddetta “giustificatezza” non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione. Lo ha ribadito la Corte di cassazione in una recente sentenza. (Cass. civ. Sez. L, Sent. 02.10.2018, n. 23894).

 

Come noto, il rapporto di lavoro dirigenziale è caratterizzato da:

A) tendenziale esclusione della tutela reale, salvo i casi di nullità e inefficacia;

b) recedibilità ad nutum, seppur con obbligo di motivazione previsto generalmente dai CCNL, fermo il diritto al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva.

La debolezza della tutela legale è stata ritenuta ragionevole e compatibile con la Costituzione (Corte Cost., 6 luglio 1972, n. 121), partendo dall’identificazione del dirigente quale alter ego dell’imprenditore, ed evidenziando l’intensità del vincolo fiduciario e le peculiarità del suo trattamento economico [Tosi, 441; Tatarelli, 142].

Indennità supplementare: natura e accertamento
A fronte di tale limitata tutela legale, la contrattazione collettiva ha introdotto una tutela economica, riconoscendo ai dirigenti, in ipotesi di licenziamento “ingiustificato”, una indennità supplementare, variabile da un minimo ad un massimo e maggiorabile a seconda dell’età.

Tale indennità, secondo il prevalente orientamento di dottrina e giurisprudenza, costituisce una penale convenzionale ex art. 1382 c.c., conseguente all’esercizio arbitrario del potere di recesso, da parte del datore di lavoro [Dui, 177; Santoro Passarelli, 1286]. Non manca, però, chi ritiene che l’indennità supplementare abbia una natura sostanzialmente risarcitoria [Failla e Brisciani, 172] e, pertanto, sia connessa alla perdita del posto di lavoro e debba essere parametrata al conseguente danno da lucro cessante. La natura dell’indennità è dibattuta per le implicazioni della qualificazione sotto il profilo tributario (nel senso secondo cui l’indennità avrebbe una doppia natura di penale e risarcimento del danno da lucro cessante, Cass., sez. trib., 16 febbraio 2012, n. 2196. Secondo Tatarelli, 147, richiamando la giurisprudenza prevalente, l’indennità è assoggettata alla tassazione separata con aliquota del TFR e ritenuta d’acconto).

I contratti collettivi di settore hanno attribuito l’accertamento del diritto all’indennità e la sua quantificazione ad un collegio di arbitrato irrituale, designato dalle parti sociali.

Tuttavia, dopo pochi anni dall’introduzione della giustizia arbitrale (negli anni ’90), essa è stata “scavalcata” dal Giudice del Lavoro, il quale si è ritenuto competente a riconoscere i presupposti per il pagamento dell’indennità supplementare, partendo dal principio di “alternatività delle tutele” per cui la clausola di arbitrato irrituale non ha natura esclusiva [Santoro Passarelli, 1287] e non può pregiudicare il diritto all’azione ex art. 24 Cost. (da ultimo Cass., sez. lav., 11 febbraio 2013, n. 3175). Tuttavia, proprio in base al principio di alternatività, il dirigente che ha fatto ricorso al collegio arbitrale non potrà successivamente sottoporre la questione della pretesa ingiustificata del licenziamento anche al giudice del lavoro [Failla e Brisciani, 159 e 171; Tatarelli, 147].

Sta di fatto che, nella prassi applicativa, la giustizia ordinaria si è ormai definitivamente appropriata della tutela convenzionale, interpretando il concetto di “giustificatezza” al fine di attribuire ai dirigenti l’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva.

Orientamenti giurisprudenziali e dottrinali
Ad una lettura superficiale, le massime della giurisprudenza di legittimità e di merito sembrano esprimere un orientamento unitario: tutte hanno un incipit che associa l’ingiustificatezza alla arbitrarietà e pretestuosità della motivazione. In particolare, le pronunce sottolineano che il concetto di giustificatezza è di derivazione negoziale e, come tale, deve essere interpretato alla stregua dei canoni di ermeneutica contrattuale e del principio generale di buona fede oggettiva ex art. 1375 c.c.. È, inoltre, costante il richiamo al principio secondo cui la nozione di giustificatezza non si identifica nella giusta causa, e nemmeno nel giustificato motivo, essendo sufficiente che, alla base del licenziamento, vi sia una decisione coerente e apprezzabile sul piano del diritto (In tal senso, nella giurisprudenza, cfr., Cass. 20 dicembre 2006, n. 27197,Cass. 2 ottobre 2018, n. 23894).

In realtà, nella decisione dei casi concreti, il panorama giurisprudenziale è molto più frastagliato di quanto non voglia apparire [per un escursus analitico della casistica giurisprudenziale e delle posizioni in dottrina, Bascherini, 143-146 e Tatarelli, 144-146].

Infatti, secondo un orientamento più restrittivo e meno recente, la giustificatezza presuppone un inadempimento del dirigente (seppur non così grave da integrare la giusta causa), ovvero una ragione oggettiva, quale l’integrale soppressione del posto di lavoro. Tale orientamento, pur negando a parole una simmetria tra le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo, e quella contrattuale di giustificatezza, si configura “nella sua traduzione concreta, come semplice variante, priva di una propria identità sostanziale, delle cause legalmente codificate” [Basenghi, 659].

Secondo un diverso orientamento “filo aziendalista”, che valorizza il vincolo fiduciario e la prevalenza della libertà di iniziativa economica, la giustificatezza può essere integrata:

a) da qualsiasi circostanza, oggettiva o soggettiva, che possa turbare il legame di fiducia, anche a prescindere da un inadempimento, ivi compreso il disallineamento rispetto alle politiche aziendali o difficoltà relazionali con i vertici aziendali o i colleghi [Ripa, 97];

b) dal mancato raggiungimento di obiettivi che il dirigente stesso ha stabilito o che, comunque, sono stati con lui concordati [Santoro Passarelli, 1287; Failla e Brisciani, 164];

c) da un diverso assetto dell’organizzazione aziendale che preveda la soppressione della posizione lavorativa del dirigente, ma non anche delle sue mansioni; tali mansioni, nell’esercizio della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost., possono essere parcellizzate e distribuite sul personale con qualifica non dirigenziale e, addirittura, su soggetti esterni all’azienda, anche per ragioni di contenimento dei costi [Santoro Passarelli, 1289 e 1290].

Quest’ultimo orientamento è quello attualmente prevalente, soprattutto in Cassazione, probabilmente influenzato dalla difficile congiuntura economico finanziaria di questi anni.

Si collocano nel solco del filone giurisprudenziale più recente le pronunce secondo cui il licenziamento è giustificato quando:

Sotto il profilo soggettivo

a prescindere da un atto di insubordinazione, si è determinato un disallineamento tra le politiche imprenditoriali, stabilite dai vertici aziendali, e la difforme visione strategica del dirigente, che si è discostato dalle direttive generali a lui impartite o le ha apertamente contestate, dichiarando di non condividerle (Cass., sez. lav., 1° febbraio 2012, n. 1424, in Guida dir., 2012, 12, 70; Trib. Caltagirone, sez. lav., 5 maggio 2011 e 23 dicembre 2010, in Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, (Il) 2011, 6, 1001);
il dirigente aveva inviato al superiore numerose comunicazioni scritte caratterizzate da un atteggiamento rigido, volto a porre la direzione nella necessità di scegliere tra l’uno e l’altro; lamentele presso la direzione false nei presupposti di fatto; tentativi di seminare disaccordo tra gli altri dirigenti e di sobillare le impiegate; invio al presidente di numerose lettere di contenuto a tratti “delirante” (Cass., sez. lav., 12 ottobre 1996, n. 8934; v. anche Cass., sez. lav., 6 aprile 1998, n. 3527);
è venuto meno il rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in ragione delle mansioni affidate, suscettibile di essere leso anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o da una importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, ovvero da comportamento extra lavorativo incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita, nonché nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda (Cass., sez. lav., 13 dicembre 2010, n. 25145; Cass., sez. lav., 2 settembre 2010, n. 18998; Cass., sez. lav., 11 giugno 2008, n. 15496);
il dirigente non ha raggiunto gli obiettivi che erano stati concordati al momento dell’assunzione (Cass., sez. lav., 13 dicembre 2010, n. 25145; Cass., sez. lav., 3 aprile 2002, n. 4729).
Sotto il profilo oggettivo

nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, insindacabile nei suoi profili di opportunità, che ha interessato l’intero gruppo di cui fa parte il datore di lavoro ed è stata imposta da una crisi finanziaria, le mansioni del dirigente sono state ridistribuite tra il personale della holding e delle consociate (Cass., sez. lav., 3 giugno 2013, n. 13918), oppure assegnate ad altro dirigente, in aggiunta alle mansioni da quest’ultimo già svolte (Cass., sez. lav., 26 novembre 2012, n. 20856; Cass., sez. lav., 22 ottobre 2010, n. 21748);
per esigenze di contenimento di costi, la posizione lavorativa è stata assegnata ad un dipendente neoassunto con retribuzione e grado di esperienza inferiori, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost. (Cass., sez. lav., 14 giugno 2006, n. 13719);
in ragione della peculiare struttura del rapporto del dirigente, è giustificato il licenziamento motivato dalla convenienza della riduzione dei costi gestionali, non essendo necessaria l’esistenza di una conclamata crisi economica aziendale (Cass., sez. lav., 16 febbraio 2015, n. 3045, in D&G, 2015; App. Firenze, 25 ottobre 2005);
il posto di lavoro è stato soppresso, ma esistevano posizioni vacanti che avrebbero potuto essere offerte al dirigente; in ambito dirigenziale, però, il licenziamento non deve rivestire i caratteri di estrema ratio attribuiti dalla giurisprudenza al giustificato motivo oggettivo, e ciò esclude qualsiasi obbligo di repechage (Cass., sez. lav., 11 febbraio 2013, n. 3175; App. Milano, 21 giugno 2005).
Esprimono, invece, un orientamento più restrittivo:

non integra gli estremi della giustificatezza il licenziamento intimato al fine di estromettere il dirigente dal vertice della struttura aziendale e sostituirlo con un uomo di fiducia dell’imprenditore (Cass., sez. lav., 17 febbraio 2015, n. 3121);
ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente, è necessario che il comportamento posto a base del recesso datoriale sia tale da arrecare un pregiudizio, anche se non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (Cass., sez. lav., 16 luglio 2013, n. 17362, in D&G, 2013);
La giustificatezza non coincide con il concetto di giustificato motivo ex art. 3 della L. 15 luglio 1966, n. 604, si misura esclusivamente sul piano fiduciario e non comprende vicende o comportamenti del dirigente non idonei a incidere sulla fiducia propria dello specifico rapporto di lavoro. Pertanto, anche in caso di dimostrata effettività del processo di riorganizzazione aziendale attivato dal datore di lavoro e posto a base del licenziamento intimato al dirigente, tale licenziamento non può ritenersi giustificato se non laddove esso sia riconducibile al venire meno del rapporto fiduciario intercorrente tra dirigente e imprenditore (Trib. Bergamo, 25 luglio 2006, in D.L. Riv. critica dir. lav., 2006, 4, 1239).
Nei confronti dei dirigenti la giurisprudenza non ritiene applicabile il criterio dell’obbligo di repechage (Cass. Civ. 12 luglio 2016, n. 14193 ma sul punto cfr. anche Cass. Civ. 9 ottobre 2017, n. 23503).

Fonte: Altalex

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