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Responsabilità del medico: l’inquadramento nel regime aquiliano è retroattivo?

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I giudici di merito sono alle prese con le questioni di diritto intertemporale suscitate dalla disposizione legislativa, introdotta nel 2017, che ha qualificato come extracontrattuale la responsabilità cui va incontro il medico per danni cagionati al paziente allorquando la propria attività si innesta nelle prestazioni erogate da una struttura sanitaria o sociosanitaria.

Nel dibattito si inserisce la sentenza resa il 27 novembre 2018 dal Tribunale di Latina (sezione II) che propende per la retroattività della regola sopraggiunta, sottolineando il suo carattere di norma sostanziale e la sua natura interpretativa.

Molteplici sono i profili su cui è intervenuta la riforma che nel 2017 ha investito il campo della sanità. Il legislatore si è mosso in un’area alquanto estesa, spaziando dalle misure di trasparenza allo statuto penale della colpa medica (in ordine al quale ha già avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte, nella sua formazione più autorevole: Cass. pen. sez. un., 21 dicembre 2017, n. 8770); dalla responsabilità civile alla copertura assicurativa dei medici e delle strutture sanitarie e sociosanitarie, senza trascurare i risvolti processuali (del procedimento di accertamento tecnico preventivo, il cui esperimento costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria, si è occupata Trib. Verona 17 maggio 2018).

Concentrandosi sulle regole civilistiche di natura sostanziale, uno degli aspetti di maggior rilievo riguarda senza dubbio la posizione di quei medici la cui attività professionale, non espletata in forza di un patto siglato con il paziente, si va a innestare nelle prestazioni terapeutiche e assistenziali erogate da una delle predette strutture, non importa se di natura pubblica o privata. Infatti, nell’eventualità di azioni risarcitorie intentate dai danneggiati nei confronti di tali professionisti, l’orientamento che si era in epoca recente delineato nella giurisprudenza di legittimità – e che non era mutato nemmeno dopo la precedente riforma settoriale del 2012 la quale, invero, forniva indicazioni non prive di ambiguità – optava per l’inquadramento nell’alveo della responsabilità contrattuale, facendo leva sulla teoria del contatto sociale qualificato. In maniera decisamente innovativa rispetto al ricordato indirizzo, l’ultimo intervento legislativo ha inteso senza mezzi termini ricondurre all’illecito aquiliano le condotte foriere di pregiudizi per il paziente. In tal modo si è operata una differenziazione rispetto al regime di responsabilità ascrivibile alle strutture, che era considerato contrattuale e tale rimane.

L’obiettivo di siffatta discrepanza è quello di allentare in qualche modo la pressione sul singolo professionista, disincentivando (perché in linea di massima più ardue rispetto alle azioni che, in relazione al medesimo evento dannoso, prendono di mira le strutture dove opera) le iniziative giudiziarie intraprese nei suoi confronti dal paziente o, in caso di decesso, dai suoi eredi o prossimi congiunti. Peraltro, in assenza di meccanismi volti a canalizzare le istanze risarcitorie verso le strutture sanitarie, nulla impedisce che i medici siano evocati in giudizio in prima battuta dai pazienti e non soltanto più tardi allorché si tratterebbe di vagliare le azioni di rivalsa promosse dalle strutture condannate.

Una delle questioni con cui si stanno confrontando i giudici civili, nella prima fase applicativa delle nuove disposizioni sulla responsabilità medica, attiene alla loro efficacia nel tempo. In altri termini, ci si chiede se esse vadano a disciplinare anche fatti accaduti prima dell’entrata in vigore della riforma. Orbene, non sono mancate le prese di posizione in favore della tesi secondo cui le regole introdotte nel 2017 in ordine ai regimi di responsabilità dei potenziali danneggianti hanno veste di norme di interpretazione autentica, con l’ovvio corollario che le stesse trovano applicazione nei giudizi in corso. Al riguardo, il Tribunale di Genova, nell’ordinanza resa il 6 settembre 2017, giustificava un simile approccio sulla base del fatto che “il sistema codicistico pare potenzialmente in grado […] di sostenere sia una ricostruzione a base contrattuale delle responsabilità di tutti i medici, sia una ricostruzione quantomeno differenziata”. Di contro, altre decisioni sono dell’avviso che le vicende pregresse, per quanto riguarda i medici operanti nelle strutture sanitarie, restino assoggettate alle regole di matrice giurisprudenziale coniate a partire dalle norme del codice civile. Questa soluzione è patrocinata da Trib. Avellino 12 ottobre 2017, che mostra di avere a cuore la tutela del legittimo affidamento dei consociati in ordine alla natura contrattuale della responsabilità del medico. In effetti, se si va oltre la valorizzazione dei dati puramente formali, si può constatare come in ultima analisi ci si trovi al cospetto di un vero e proprio avvicendamento di regole antitetiche.

Indipendentemente dai dubbi circa l’incidenza sulle condotte già poste in essere del nuovo regime di responsabilità previsto per i sanitari che assistono persone con le quali non hanno concluso all’uopo alcun contratto, un’ulteriore divergenza di vedute si registra attorno ad un’altra misura legislativa che (in continuità con quanto previsto nel 2012) prescrive, ai fini della commisurazione del danno non patrimoniale subito dai pazienti, l’impiego delle tabelle previste dalla legislazione in materia di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante dalla circolazione. Si discute, cioè, se tali tabelle debbano essere utilizzate nelle cause pendenti. Nei fatti, il problema si pone soltanto per l’unica tabella effettivamente varata, ossia quella relativa alle lesioni di lieve entità. Orbene, a parte il fatto che la tabella andrebbe integrata per tener conto delle specificità delle menomazioni legate alle prestazioni sanitarie, anche qui si fronteggiano due schieramenti attestati su posizioni opposte: da un lato, c’è chi propende per l’immediata operatività ad ampio raggio dei criteri normativi di computo del pregiudizio da micropermanenti, mettendo in luce che la disposizione relativa alla quantificazione dei danni, lungi dall’investire il fatto da cui sorge il diritto al risarcimento, incide solo sulle modalità di liquidazione (in questi termini Trib. Milano 16 febbraio 2018); dall’altro, si rifiuta l’applicazione del meccanismo tabellare di conio legislativo, facendo leva sull’esigenza che il danneggiato non soffra l’ulteriore nocumento, legato alla durata del processo e consistente in una liquidazione inferiore rispetto a quella spettante a chi abbia patito identico pregiudizio nel medesimo torno di tempo, ma abbia ottenuto tempestivamente tutela e sia dunque riuscito a fruire dei parametri più favorevoli recati dalle tabelle milanesi, le quali costituiscono il punto di riferimento univoco a livello nazionale dove manchino apposite indicazioni di legge (Trib. Catania 15 maggio 2017).

Tornando alla diatriba sui profili intertemporali della regola che considera apertis verbis extracontrattuale la responsabilità in cui incorre il medico operante in un struttura sanitaria, un chiaro supporto alla tesi della retroattività proviene del Tribunale di Latina nella sentenza depositata il 27 novembre 2018, con la quale è stata respinta la domanda risarcitoria proposta da un paziente che cercava il ristoro dei pregiudizi conseguenti all’asportazione completa della tiroide. Nella motivazione di tale pronuncia, rispetto alla disposizione sopraggiunta, si evidenzia:

a) il suo carattere sostanziale, e non già processuale; b) la sua indole interpretativa, in quanto volta a qualificare la natura della responsabilità.

Sennonché, sulla scorta degli elementi acquisiti nell’istruttoria, si può ritenere che, nel caso di specie, l’esito della vertenza non sia dipeso dall’inquadramento della responsabilità del medico. Infatti, le conclusioni cui è approdata la consulenza tecnica d’ufficio sono tali che, ad avviso del giudice della località laziale, deve ritenersi positivamente accertata l’adeguatezza del trattamento chirurgico effettuato. In altri termini, può darsi per dimostrato che le conseguenze negative lamentate dall’attore sono da attribuire a fattori non prevedibili e non evitabili, malgrado la corretta esecuzione dell’intervento. In particolare, alcuni dei disturbi lamentati vengono considerati alla stregua di complicanze post operatorie, che si è concretamente verificato essere estranee alla correttezza della condotta del chirurgo (a risultati analoghi si era pervenuti nella vicenda vagliata da Cass. civ. sez. III, 12 luglio 2018, n. 18330, a proposito della mancata rigenerazione della cartilagine asportata e della posizione anomala assunta dalla cartilagine residua, a seguito di un intervento di rinosettoplastica; va comunque ricordato che le complicanze di un intervento chirurgico di routine sono presuntivamente addebitate al personale sanitario che ha prestato la propria opera professionale, come si desume da Trib. Como 23 aprile 2018). E, a fronte di tale accertamento, non vi sarebbe spazio per configurare ad alcun titolo una condanna del professionista.

Per giunta, in relazione ad altri pregiudizi sofferti dal paziente, viene anche appurata l’assenza di un legame eziologico con la condotta del medico. Siffatta carenza osterebbe all’accoglimento della domanda anche spostandosi sul terreno della responsabilità contrattuale, dal momento che nuocerebbe comunque all’attore la mancata prova del nesso causale tra la condotta negligente, imprudente o imperita e il pregiudizio verificatosi (sul punto, v. Cass. civ. sez. III, 15 febbraio 2018, n. 3704; Cass. civ. sez. III, 26 luglio 2017, n. 18392; Trib. Udine 27 luglio 2018).

Fonte: Altalex

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