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FALLIMENTO NON FA RIMA CON LICENZIAMENTO

 

La dichiarazione di fallimento di una società non costituisce di per sé motivo sufficiente a giustificare la risoluzione dei rapporti di lavoro in essere e, in caso di licenziamento illegittimo, il dipendente ha diritto all’integrale risarcimento del danno, a prescindere dalla utilizzabilità, in concreto, della prestazione lavorativa.

E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 522 del 11.1.2018.

Nel caso portato all’attenzione della Corte un lavoratore, licenziato dal Curatore di una società fallita, aveva adito il Giudice del lavoro per far accertare il proprio diritto alla corresponsione delle differenze retributive maturate nel periodo di sospensione dal lavoro, nonché delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento e sino al ripristino del rapporto di lavoro.

La curatela del fallimento, infatti, dopo aver sospeso il rapporto di lavoro del dipendente a seguito dell’intervenuta dichiarazione di fallimento della società, a distanza di qualche anno aveva comunicato al dipendente la cessazione del rapporto di lavoro.

Il licenziamento era stato in seguito dichiarato inefficace dal Giudice del lavoro con sentenza passata in giudicato, ma il dipendente non era stato reintegrato né era stata accolta, dalla curatela, la domanda con la quale il lavoratore richiedeva l’ammissione al passivo del fallimento di un importo pari a tutte le retribuzioni maturate nel periodo successivo al licenziamento.

Il dipendente era pertanto ricorso nuovamente al Giudice del lavoro al fine di fare accertare, da un lato, il diritto alla corresponsione elle differenze retributive per tutto il periodo della sospensione e dall’altro, stante l’illegittimità del licenziamento, il diritto a veder riconosciute ed ammesse al passivo del fallimento tutte le retribuzioni maturate a decorrere dalla data di licenziamento per il periodo di mancata reintegrazione.

Il Giudice del lavoro di primo grado, respingeva la domanda del lavoratore, mentre la Corte d’Appello successivamente adita riformava la sentenza in senso favorevole al dipendente.

La curatela impugnava la sentenza avanti la Corte di Cassazione ritenendo che la sospensione del rapporto di lavoro non determinasse alcun obbligo retributivo in capo al fallimento in assenza di prestazione lavorativa. Inoltre la curatela giustificava la mancata ripresa dell’attività lavorativa con lo stato di fallimento della società che aveva impedito materialmente la ricostituzione del rapporto di lavoro: pertanto, concludeva la curatela, in assenza di prestazione lavorativa, il dipendente non aveva diritto alla corresponsione delle retribuzione.
La Corte di Cassazione investita della questione ha affermato, da un lato, che il dipendente non aveva diritto di percepire alcuna retribuzione per il periodo di sospensione precedente il licenziamento, stante il disposto dell’art. 72 della Legge Fallimentare.

Dall’altro lato, invece, con riferimento al licenziamento, la Cassazione ha ritenuto che l’illegittimo recesso comunicato dalla curatela attribuiva al dipendente il diritto di veder risarcito integralmente il danno mediante la corresponsione di un importo pari alla retribuzione dovuta per tutto il periodo di mancata reintegrazione, secondo quanto previsto dall’art. 18, L. 300/70, applicabile nel caso di specie.

La Corte ha rilevato infatti che, sebbene le disposizioni fallimentari consentano al curatore di valutare quali rapporti contrattuali mantenere e quali invece risolvere, tale facoltà non esime dalla applicazione delle disposizioni di legge poste a tutela dei lavoratori contro i licenziamenti individuali.

In particolare i Giudici hanno osservato che nel caso in cui il curatore intenda sciogliersi dal vincolo contrattuale con il dipendente “dovrà farlo nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi, non essendo in alcun modo sottratto ai vincoli propri dell’ordinamento lavoristico perché la necessità di tutelare gli interessi della procedura fallimentare non esclude l’obbligo del curatore di rispettare le norme in generale previste per la risoluzione dei rapporti di lavoro”.

In caso di violazione delle disposizioni di legge, come nel caso di specie, il dipendente avrà pertanto diritto a veder accertata l’illegittimità del licenziamento ed alla corresponsione delle differenze retributive maturate per tutto il periodo di omessa reintegrazione, indipendentemente dalla effettiva possibilità di utilizzazione delle energie lavorative da parte del datore di lavoro, in quanto la conseguenza risarcitoria è espressamente prevista dalla legge quale effetto della ricostituzione del rapporto di lavoro.

Fonte: Altalex

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