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Adozione particolare del figlio in affidamento: consenso del genitore è necessario anche se non convivente

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 16 luglio 2018 n. 18827, ha precisato e circoscritto il principio di diritto già espresso in una precedente decisione in tema di consenso del genitore del figlio dato in affidamento, ai fini della richiesta di adozione in casi particolari da parte degli affidatari.

L’art. 46 della legge 184/1983 richiede l’assenso all’adozione così detta “mite” dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale “se conviventi con l’adottando”.

Nel settembre 2008 nasce un bimbo che è affidato in via temporanea ad un’altra famiglia per sopperire alla condizione di precarietà della famiglia di origine.

Dal luglio 2009 anche la madre è accolta presso l’abitazione della famiglia affidataria.

Nei confronti della madre non era stata mai pronunciata la decadenza della responsabilità.

La donna aveva continuato a vivere col figlio presso la famiglia, lavorando presso una pizzeria fino al novembre 2012, quando aveva iniziato a convivere con un nuovo compagno, con cui si era poi spostata e aveva avuto altri due figli.

In seguito la madre era andata a trovare il bimbo almeno una o due volte la settimana. La donna aveva inoltre ottenuto incontri liberi col figlio e alcuni pernotti presso la sua abitazione.

Gli affidatari decidono di adire il Tribunale per i minorenni di Roma per ottenere l’adozione in casi particolari del minore ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), ma la richiesta viene respinta, stante l’efficacia preclusiva del dissenso opposto dalla madre del minore.

La Corte d’appello confermava la decisione del tribunale anche in base alle risultanze della relazione della ASL dalla quale emergeva un disagio psicologico del minore derivante dalla conflittualità tra gli affidatari e la madre del bambino. Tale situazione aveva portato il bambino a rifiutare di trasferirsi stabilmente dalla madre.

Gli affidatari ricorrono in Cassazione.

La sentenza della Cassazione

La decisione della Corte d’appello romana, secondo i ricorrenti, avrebbe violato l’art. 46 della legge n.184, poiché il dissenso all’adozione deve necessariamente provenire “dal genitore che non sia mero titolare della potestà genitoriale, ma ne abbia altresì il concreto esercizio, grazie ad un rapporto effettivo con il minore, caratterizzato dalla convivenza, in ragione della centralità attribuita dagli artt. 29 e 30 Cost. all’effettività del rapporto genitore-figlio”.

La Corte non avrebbe tenuto conto del contesto sociale e familiare di grande soddisfazione in cui il minore viveva da circa sette anni e del forte legame creatosi con gli affidatari, a fronte dell’assenza di un rapporto affettivo costante con la madre naturale.

In un recente precedente della Cassazione (sentenza n. 18575 del 21 settembre 2015) era stato effettivamente emanato il principio invocato dai ricorrenti, secondo cui non ha efficacia preclusiva il dissenso manifestato dal genitore che sia meramente titolare della responsabilità genitoriale, senza averne il concreto esercizio derivante da un rapporto affettivo con il minore, ma i giudici della Corte Suprema hanno ritenuto che il detto principio dovesse essere meglio puntualizzato con determinate precisazioni e limitazioni.

L’interesse prevalente del minore è quello di vivere, per quanto possibile, con i propri genitori e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia di origine (Cass. Civ. n. 13435 del 2016), con la conseguenza che il ricorso alla dichiarazione di adottabilità deve rappresentare l’extrema ratio (Cass. Civ. n. 3915/2018).

Il Giudice deve verificare in primo luogo l’effettiva e attuale possibilità di recupero delle capacità e competenze genitoriali (Cass. Civ. n. 7559/2018).

Tuttavia hanno anche importanza i reali legami affettivi creati dal minore e non solo quelli formali. Da ciò deriva l’esigenza di valutare la corrispondenza dell’adozione all’interesse del minore, momento in cui devono essere bilanciati i due interessi: quello del genitore a conservare un rapporto privilegiato con il figlio, e quello del minore ad essere inserito a tutti gli effetti, con pieno riconoscimento di diritti e doveri, nella famiglia che si prende cura di lui.

La Corte ha ritenuto pertanto di confermare il principio di diritto in precedenza emanato, dando però valore non tanto all’elemento della mancata convivenza del genitore, quanto ad una più grave situazione di disgregamento dell’ambiente familiare d’origine del minore. Solo in tale ipotesi non è necessario il consenso del genitore formalmente esercente la responsabilità genitoriale.

Nel caso di specie, la madre da sempre ha manifestato interesse al recupero del rapporto con il figlio minore, anche se non agevolata dalla condotta degli affidatari, i quali, nel periodo di affidamento, non avevano aiutato il bambino a recuperare e consolidare il rapporto con la madre, venendo meno allo spirito ed al significato dell’affido, e creando nel bambino un disagio psicologico.

Secondo i giudici, non è riscontrabile quella situazione di disgregazione del contesto familiare di origine del minore che avrebbe consentito al giudice di merito di non tener conto del dissenso all’adozione manifestato dalla madre, ai sensi dell’art. 46 comma 2 legge 184/1983.

Fonte: Altalex

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