LOCAZIONE COMMERCIALE AMMISSIBILE LA DETERMINAZIONE DEL CANONE A SCALETTA
Ma la clausola è nulla se le parti hanno voluto surrettiziamente neutralizzare solo gli effetti della svalutazione monetaria (Cass., sentenza n. 23986/2019).
Nell’ambito di un contratto di locazione ad uso non abitativo le parti sono libere di pattuire una determinazione del canone in misura differenziata e crescente nel tempo (c.d. “a scaletta”), purchè ciò avvenga in sede di conclusione del contratto e non abbia effetti puramente elusivi dei limiti all’aumento del canone posti per legge.
Non è dunque necessario che la pattuizione sia legata ad elementi oggettivi e predeterminati, diversi dalla svalutazione monetaria e idonei a incidere sul sinallagma contrattuale, costituendo quest’ultima soltanto una delle modalità possibili per assicurare al locatore un corrispettivo crescente.
Lo ha statuito la terza sezione civile della Corte di Cassazione, sezione III civile, che con la sentenza n. 23986 del 26 settembre 2019 (testo in calce) ha ribadito il principio di diritto già precedentemente affermato in tema di determinazione convenzionale del canone in aumento nei contratti di locazione commerciale.
I proprietari di un immobile concesso in locazione ad uso commerciale intimavano alla società conduttrice sfratto per morosità, lamentando il mancato pagamento dei canoni.
La convenuta si opponeva negando la morosità ed eccependo la nullità del contratto, in particolare delle clausole che prevedevano, rispettivamente, l’aumento del canone in misura crescente nel tempo e l’addebito alla conduttrice del pagamento integrale delle imposte di registro.
Disposto il mutamento del rito, all’esito del giudizio a cognizione piena il Tribunale di Enna riteneva valide entrambe le clausole contrattuali e dichiarava risolto il rapporto di locazione per grave inadempimento della conduttrice.
Quest’ultima proponeva appello, che veniva dichiarato inammissibile dalla Corte territoriale.
La società soccombente ricorreva quindi per cassazione mentre gli intimati resistevano con controricorso.
Il ricorso per cassazione: i motivi
La ricorrente contestava in particolare l’erronea interpretazione data dal Tribunale alle clausole contrattuali.
Da queste ultime, a suo dire, emergeva chiaramente come il solo ed unico scopo dei locatori fosse quello di eludere il disposto dall’art. 32 della L. n. 392/78, che vieta variazioni in aumento del canone superiori al 75% di quelle, accertate dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati.
A tal proposito osservava che una delle pronunce citate dal giudice di merito (Cass. n. 5349 del 05/03/2009) legittimava le parti, nell’ambito di un rapporto di locazione commerciale, a concordare il canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, a condizione però di
ancorare tale determinazione ad elementi predeterminati del contratto, idonei a preservare l’equilibrio economico tra i contraenti, senza mutare né tantomeno eludere la disciplina dettata in punto di svalutazione monetaria.
Elementi che, a detta della ricorrente, non sussistevano nel caso di specie.
La giurisprudenza sulla previsione del canone in misura differenziata e crescente
Nell’esame dei motivi di ricorso la Corte si concentra in particolare sulla censura mossa alla clausola di previsione del canone in misura crescente.
Clausola che il Tribunale ha ritenuto valida ed efficace in quanto pattuita alla conclusione del contratto ed operante solo a seguito del primo rinnovo (quando cioè la conduttrice era in grado di recedere dal rapporto), non essendovi peraltro prova di una predisposizione unilaterale dell’accordo da parte dei locatori o del loro intento palesemente elusivo dei divieti previsti per legge.
Ripercorrendo le principali pronunce giurisprudenziali sul tema (tra le molte si vedano Cass. 03/08/1987, n. 6695; Cass. 05/03/2009, n. 5349; Cass. 23/02/2007, n. 4210; Cass. 24/08/2007, n. 17964; Cass. 08/05/2006, n. 10500), la Corte osserva che la ricostruzione della ricorrente muove da quell’orientamento giurisprudenziale restrittivo, che pur avendo trovato ampio seguito, è in realtà privo di giustificazione logica e frutto unicamente di una lettura distorta della massima di una delle prime pronunce rese in materia (Cass. 03/08/1987, n. 6695), tramandatasi nel tempo.
Tale impostazione indica erroneamente come requisito vincolante la necessità di dimostrare un collegamento esistente tra la previsione di un eventuale aumento “a scaletta”del canone in costanza di rapporto ed elementi oggettivi e predeterminati, diversi e autonomi dalla svalutazione monetaria e come tali idonei a incidere sull’equilibrio economico del rapporto contrattuale.
Il requisito in questione non compare tuttavia nel testo della sentenza di riferimento, che pone unicamente l’accento sulla necessità di stabilire se mediante tali clausole le parti vogliano assicurare un maggior vantaggio al locatore o soltanto neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti posti dall’art. 32 della c.d. “legge sull’equo canone”.
Un problema cioè di mero accertamento della comune volontà dei contraenti (riservato come tale alla valutazione insindacabile del giudice di merito) e risolto consentendo la predeterminazione del canone in misura variabile, anche crescente di anno in anno, purché ciò avvenga in sede di conclusione del contratto e non per effetto di nuovi accordi stipulati nel corso del rapporto, in modo da non alterare l’equilibrio economico tra i contraenti.
Nessun riferimento, dunque, alla necessità di dimostrare (tantomeno con rilievo vincolante) il collegamento ai c.d. elementi oggettivi e predeterminati, idonei a incidere sul sinallagma, requisito indebitamente introdotto dalla massima, che tuttavia ha inaugurato un orientamento giurisprudenziale di ampio seguito (tra le molte Cass. 14/03/2017, n. 6474; 28/07/2014, n. 17061; 17/05/2011, n. 10834; 06/10/2005, n. 19475).
L’anomalia è stata a suo tempo rilevata da Cass. n. 22909 del 2016, che ha evidenziato come assecondando l’errata lettura della massima si giungerebbe (e si è di fatti giunti) alla conclusione che le parti di un contratto di locazione ad uso commerciale, qualora vogliano determinare l’entità del canone in misura differenziata e crescente per frazioni di tempo, avrebbero l’onere (anche probatorio) di allegare l’avvenuto ancoramento degli aumenti ai richiamati elementi predeterminati.
Un condizionamento dell’autonomia contrattuale che – ha osservato la Corte nella pronuncia del 2016 – non è in realtà desumibile da alcuno dei passaggi argomentativi della sentenza del 1987, che si è limitata ad affermare la piena e incondizionata libertà delle parti di assicurare al locatore un corrispettivo crescente, in termini di valore reale, nel corso di svolgimento del rapporto.
A tale regola generale la Corte ha posto, come unica eccezione, l’ipotesi in cui le parti agiscano al solo scopo di neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria, essendo in tal caso onere del conduttore (che invoca l’eventuale nullità della clausola di determinazione del canone) provare l’effettivo intento delle parti.
In difetto di prova, la clausola di determinazione differenziata del canone per frazioni di tempo successive dovrà ritenersi valida.
Pronunciandosi sul caso di specie, la Corte di Cassazione dichiara di aderire all’orientamento inaugurato dal precedente del 2016.
Ritiene pertanto che il riferimento, con valenza condizionante, agli elementi predeterminati e idonei ad influire sull’equilibrio economico del rapporto contrattuale, indipendenti dalle variazioni annue del potere di acquisto della moneta, sia frutto di un’impropria trasmissione della linea interpretativa inaugurata dalla pronuncia n. 6695/1987.
Ribadisce a tal proposito il precedente di diritto affermato con la sentenza n. 22909 del 2016, chiarendo che alla luce del principio generale di libera pattuizione del canone locativo per gli immobili destinati ad uso commerciale, è legittima la clausola che prevede l’iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto.
“A tal fine deve escludersi la necessità di dimostrare, con rilievo condizionante, il collegamento del previsto aumento nel tempo del canone a elementi oggettivi e predeterminati, diversi dalla svalutazione monetaria, idonei a incidere sul sinallagma contrattuale. L’ancoramento a tali elementi costituisce infatti solo una delle possibili modalità attraverso cui può operarsi detta predeterminazione del canone “a scaletta”, in alternativa alla quale questa può altrettanto legittimamente operarsi sia mediante la previsione del pagamento di rate quantitativamente differenziate e predeterminate per ciascuna frazione di tempo; sia mediante il frazionamento dell’intera durata del contratto in periodi temporali più brevi a ciascuno dei quali corrisponda un canone passibile di maggiorazione”.
Dovrà per contro dichiararsi l’illegittimità (e la conseguente nullità) di una simile clausola, qualora risulti dal contratto (o la parte che ne invoca la nullità dimostri) che le parti hanno agito unicamente allo scopo di neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti per legge.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha quindi rigettato il presente motivo di impugnazione, condividendo la valutazione della Corte territoriale che, una volta esclusa la sussistenza di un intento puramente elusivo dei locatori (peraltro non provato dalla conduttrice), aveva ritenuto la clausola contrattuale valida ed efficace.
Il riparto delle spese di registrazione del contratto di locazione
Quanto alla clausola con cui era stato convenuto l’integrale addebito al conduttore delle spese di registrazione del contratto di locazione, il giudice di merito l’aveva ritenuta valida muovendo dalla previsione dell’art. 8 della legge n. 392/78, che pone le spese di registrazione del contratto a carico di locatore e conduttore in egual misura.
A tal proposito rilevava che l’intervenuta abrogazione dell’art. 79 della legge n. 392/78 aveva eliminato la sanzione di nullità conseguente alla violazione dell’art. 8 (seppur limitatamente alle sole locazioni abitative), trasformando così tale norma da imperativa a dispositiva, o meramente suppletiva, apportando una modifica valevole anche in ambito di locazioni commerciali.
La Cassazione non condivide tuttavia tale ragionamento, ritenendo al contrario che neppure a seguito dell’intervento abrogativo il citato art. 8 sia liberamente derogabile per volontà delle parti.
La natura inderogabile della previsione – osserva la Corte – deriva infatti dal suo essere norma di carattere tributario, che individua i soggetti passivi dell’imposta di registro dovuta per il contratto di locazione e le rispettive quote di riparto.
E’ dunque corretta la ricostruzione fornita dalla società ricorrente, dovendosi ritenere nulla – ai sensi dell’art. 1418 primo comma c.c., per contrasto con l’art. 53 Cost. – qualsiasi pattuizione con cui un soggetto, anche se senza effetti nei confronti dell’Erario, riversi su un altro, pur diverso dal sostituto, dal responsabile d’imposta e dal cosiddetto contribuente di fatto, il peso del tributo cui è soggetto.
La Corte richiama a tal proposito la pronuncia resa a Sezioni Unite con sentenza 8 marzo 2019, n. 6882, che ha escluso la nullità della pattuizione solo se la clausola che obbliga il conduttore a farsi carico di ogni tassa, imposta ed onere relativo ai beni locati e al contratto, è stata prevista dalle parti come componente integrativa del canone di locazione complessivamente dovuto e non implichi che il tributo sia pagato da un soggetto diverso dal contribuente.
Una valutazione che, nel caso di specie, non risultava neppure ipotizzata nella sentenza impugnata, nè in alcun modo riferibile alla fattispecie oggetto di giudizio.
La Corte ha quindi cassato la sentenza in relazione ai motivi accolti, rinviando alla Corte d’Appello di Caltanissetta per provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Fonte: Altalex
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OTT
2019